
01-06-1982 – Delta Zulu Sierra Alpha (Atlantico del Sud, Falkland) – ore 04.32
Grazie a quel mirabile organo di senso che è il posteriore umano, Felipe Bonaventura, tenente della Fuerza Aerea Argentina, nonché secondo pilota del C-130 “El Naranjero”, sentì risvegliarsi in modo prepotente l’antico istinto della preda rimasta senza riparo.
Davanti a lui, oltre il parabrezza flagellato dal vento, le nere onde dell’Atlantico del sud sembravano una catena montuosa, vivente e minacciosa, pronta a afferrare il pesante quadrimotore con gli artigli di spuma. Era un volo notturno e a bassa quota, per sfuggire ai radar inglesi.
Pur non essendoci niente di elettronico, qualcosa dalle parti delle natiche di Felipe non aveva mai smesso di lanciargli preoccupanti segnali di pericolo sotto forma di brividi e improvvisi irrigidimenti.
“Sarà questo maledetto freddo,” pensò Felipe, ben sapendo che non era così. A ogni istante l’allarme missilistico poteva mettersi a trillare annunciando l’arrivo di un missile inglese e la loro repentina dipartita dalla follia della guerra.
Per allontanare questo pensiero, Felipe scese nella stiva per controllare ancora una volta il carico: quattro grossi container di metallo contenenti i micidiali missili antinave da portare ai difensori delle Malvinas. L’ultima risorsa contro la preponderante flotta inglese all’ancora. L’ultimo scherzo di una guerra ormai perduta.
Nell’assordante vano di carico, Felipe, in barba a tutti i divieti, si accese una sigaretta, ma era impossibile cancellare il fetore dolciastro che continuava ad emanare in quello parte della fusoliera da quando l’aereo era stato usato per trasportare uno strabiliante quantitativo di arance dalla tenuta di un potente generale per essere venduta nei mercati cittadini. “El Naranjero” così l’aereo era stato soprannominato dagli altri piloti, come se fosse diventato il furgone del fruttivendolo grazie ad un solo volo.
«Meglio arance che poveretti da buttare nell’oceano,» aveva risposto esasperato Felipe, accorgendosi troppo tardi che si stava rivolgendo alla persona sbagliata, nel luogo sbagliato.
Nell’affollato circolo ufficiali dell’Aereoporto Militare Jorge Newbury cadde un silenzio di tomba.
La notte stessa qualcuno cambiò il piano di volo del Naranjero. Davanti alla rampa di carico la mattina seguente non trovò gli annoiati marmittoni da portare a una guarnigione della Patagonia, ma una fila di autocarri senza distintivi dai quale venivano scaricate decine di barelle. Felipe aveva capito subito.
Lassù dove c’erano le menti feroci e insonni del Processo di Riorganizzazione Nazionale, qualcuno aveva deciso che “El Naranjero” doveva dare il suo contributo all’Operazione Condor e offrire un volo di sola andata sull’oceano a dissidenti, prigionieri politici o semplici testimoni scomodi che la Giunta Militare Argentina non poteva permettersi di liberare dopo settimane di torture e violenze.
I trasladados* giacevano incoscienti nelle barelle sotto l’effetto di qualche potente droga, inconsapevoli, ma forse anche grati per quel pietoso sonno chimico. Non c’era risveglio da quel genere di sonno; solo un salto da 4000 piedi verso l’azzurro pavimento dell’oceano. Quelle persone erano già morte.
Felipe si era sforzato di non guardare quei volti dormienti, concentrandosi sul nuovo piano di volo, vergato a mano e redatto da qualcuno che con macabro senso dell’umorismo definiva il volo come “sgancio a media quota di rifiuti tossici oltre le acque territoriali”.
Un uomo vestito col camice della Sanità, sulla rampa di carico, sembrava concentrato a scrivere qualcosa in un quadernetto nero, ma al passaggio di Felipe lo interpellò:
«Tenente Bonaventura? Sono il Dottor Horacio Artiz e ho l’incarico di sovraintendere al trasporto e allo sgancio del… carico. Salirò con voi.»
Felipe fu tentato di dirgli di stare attento a non sporcarsi troppo il camice bianco nel vano di carico, ma si trattenne. Aveva avuto già abbastanza guai per la sua pessima abitudine di parlare al momento sbagliato.
«Devo chiedervi un favore. Sto conducendo un esperimento con un nuovo farmaco ipnotico su questi… soggetti. Vorrei che il volo durasse un po’ più del solito,» continuò Artiz.
«Veramente il piano di volo prevede…» Artiz lo interruppe:
«Non le sto chiedendo molto, solo una ventina di minuti. Può sempre dire che ha avuto problemi a liberarsi del “carico”. Si ricordi che ho amici molto influenti.»
«Capisco, ne parlerò col pilota. Vedrò cosa posso fare…»
In quel momento si udì un urlo e una delle figure, distese nelle barelle, balzò in piedi, scaraventò per terra due militari e iniziò a correre verso gli hangar alla fine della pista. Era una ragazza magrissima, sui vent’anni, con lunghi capelli neri con una sottoveste lurida e stracciata.
«Cosa aspetta Bonaventura? La insegua!» aveva urlato il dottore.
Ma la ragazza prima ancora che qualcuno potesse reagire si era accasciata sulla pista di cemento.
Per puro riflesso Felipe aveva sollevato la ragazza tra le braccia. Dopo averle tolto i capelli dal viso emaciato, aveva scoperto che i suoi grandi occhi azzurri lo fissavano atterriti.
«El Perro Negro…Il Cane Nero. Il Cane Nero ti prenderà l’anima. Lo vedo… Nero… Nero come la notte. Ha gli occhi di fuoco ed è nero come l’inferno. Non c’è speranza: il Cane Nero ti porterà all’inferno,» sussurrò e perse i sensi.
Fu in quel momento che Felipe sentì per la prima volta quel brivido partire dalle natiche.
El Perro Negro. Il Cane Nero.
Cosa aveva voluto dire quella ragazza condannata?
Durante il volo l’aveva domandato al medico, ancora indaffarato ad annotare le reazioni dei suoi “soggetti”.
«Allucinazioni… solo allucinazioni. Somministriamo loro un cocktail di mia invenzione a base Pentotal, Paraldeide e estratto di Peyote. Dovrebbe renderli più malleabili durante gli interrogatori, ma spesso sono vittime di allucinazioni e l’effetto del farmaco è vanificato. Dipende dai soggetti.»
Il dottore annotò qualcosa nel suo quaderno dopo aver consultato il costoso orologio da polso.
«Si figuri che un mio assistente s’era convinto che, sotto l’effetto del farmaco, alcuni soggetti potessero persino predire il futuro.»
Felipe sobbalzò: «Davvero?»
«Uno dei soggetti gli avrebbe già detto chi vincerà i prossimi mondiali di Spagna. Si figuri… l’Italia. Quella squadretta insignificante.»
La faccenda del Cane Nero ossessionò Felipe per tutto il volo.
Quasi si dimenticò dei soldati e del “carico”, quando accese la luce verde e spalancò il portello posteriore sull’oceano.
Per mesi fu ossessionato dagli occhi atterriti della ragazza e dalle sue parole. Per mesi evitò con cura qualunque membro abbastanza scuro della razza canina e persino un olivastro sottufficiale, basso e attaccabrighe, soprannominato “el perrito”.
Per sfuggire all’ombra che il suo subconscio evocava ogni notte, Felipe accettò ogni missione.
In volo si sentiva al sicuro. Non c’erano cani che potessero seguirlo lassù.
Quest’ultima missione però era diversa, Felipe se lo sentiva.
Una luce rossa si accese sulla paratia. Le Malvinas erano vicine. Collegò la sua cuffia all’interfono e si imbragò per iniziare le operazioni di sgancio. La rampa si aprì sulla notte australe.
Le stelle erano oscurate da un’ombra nera che si muoveva sullo sfondo della notte gelida.
Così lo vide.
Nero come la notte e con le fauci aperte. Pronto a balzare su di lui. Con il pelo lucido e bagnato, gli occhi feroci che brillavano come braci.
E le zanne. Candide e affilate che spuntavano da una bocca infernale.
La paura aggredì Felipe paralizzandolo meglio di un cocktail del dottor Artiz. Poi si accorse che la fantasia gli aveva giocato un brutto scherzo
Non era il Cane Nero. Non era il suo fantasma preferito. Quasi con sollievo riconobbe un aereo dipinto di nero che seguiva il “Naranjero”. Pensò a un caccia di scorta fino a che non vide le fiamme gemelle dei cannoncini. Come occhi di fuoco.
Mentre la fusoliera e le ali del quadrimotore venivano squassate dai proiettili incendiari lo stupore lasciò posto alla rassegnazione. Fuoco, fumo. L’aereo sobbalzò e si lamentò come un grosso animale in agonia. Felipe si voltò e vide la cabina di pilotaggio devastata. L’aereo era condannato. Finalmente il pavimento si inclinò in maniera impossibile e il Naranjero iniziò la sua corsa finale verso l’oceano. Mentre Felipe assisteva alla propria precipitosa caduta, legato come il capitano Achab a una balena che puzzava di carburante e arance marce. Non poté fare a meno di pensare all’aereo inglese che li aveva abbattuti. I suoi compagni lo chiamavano “Muerte nigra”, la morte nera. Gli inglesi invece lo chiamavano Harrier.
Segugio.
Un tipo di cane che non molla mai la preda. E dipinto di nero per giunta.
*trasladados= trasferiti, termine utilizzato per definire le vittime del sistema di eliminazione dei prigionieri politici tramite caduta da un aereo sull’oceano.