“Amatissima Suheila, mio prezioso fiore che la brezza mattutina accarezza; profumo inebriante che arriva nel sonno e mi sveglia con un sorriso.  Sono due anni che non ti vedo a causa di questa guerra crudele che mi inaridisce e mi tiene lontano da te, come il sasso che blocca il canale e impedisce all’acqua di raggiungere l’e radici assetate. Suheila, tu sarai sempre l’unica fonte dalla quale traggo sollievo. 
Oggi non mi riconosceresti. Non sono più lo studente impacciato che recitava poesie e non riusciva a sostenere il tuo sguardo profondo e saggio.
In questi mesi ho combattuto su tutti i fronti, il deserto libico, il delta del Nilo, il Negev. Ormai sono un rude veterano. Un soldato sopravvissuto ai suoi compagni e che parla ai loro fantasmi. 
All’inizio la fede e l’entusiasmo di tanti popoli riuniti sotto la stessa bandiera, mi fece superare le avversità e la paura. Si passava di vittoria in vittoria. I popoli delle nazioni che attraversavamo ci accoglievano come liberatori e l’occidente tremava di fronte ai nostri eserciti vittoriosi, dibattendosi impotente nella propria crisi. 
Oggi le vittorie sembrano finite. Siamo fermi da mesi nelle fredde trincee davanti questo lago salato dell’altopiano anatolico. Tuz Gölü è il nome di questo posto, ed è solo un altro modo per chiamare l’inferno. 
I Commissari della Fede quando ci arringavano prima di ogni attacco, dicevano sempre che il soldato occidentale ha paura di morire e ciò lo rende vulnerabile. Abbiamo vinto tante battaglie con quella certezza.

Oggi a Tuz Gölü siamo faccia a faccia con il demonio che la paura ha generato. Di fronte a noi non ci sono più esseri umani, ma macchine. Migliaia di robot assassini che falciano l’aria con fasci di microonde tanto potenti da polverizzare un uomo, oppure automi piccoli come tafani che si infilano nelle carni esplodendo negli organi vitali.
Sono mesi che non vediamo soldati nemici in carne ed ossa e siamo bloccati davanti a questo infernale esercito d’acciaio e plastica. Mesi di attacchi disperati e di inutili carneficine. I Commissari dicono che ormai tutto l’Occidente è così, perché le macchine hanno preso il posto degli esseri umani.
Dicono che la nostra missione è debellare i robot di Satana per ricondurre il mondo alla vera fede. Ma è solo una storia per convincere questi ragazzini che mandiamo al martirio imbottiti di esplosivo. Io sono addetto alle trasmissioni e la notte li sento parlare alla radio, i soldati invisibili che guidano i robot.

Sembrano persone come noi, parlano delle loro donne, ridono e scherzano. Discutono di musica e di quando torneranno a casa. Casa. Dicono le stesse cose che diciamo noi.
Ieri è arrivata la notizia che qualcuno ha lanciato una bomba atomica su una grande città dell’Europa. Si parla di migliaia di morti. Nessuno sa veramente chi sia stato: loro accusano noi e noi accusiamo loro. Solo io ho capito che era l’inizio della fine.
Uno zelante commissario ha notato la mia rabbia nel leggere la notizia e mi ha messo nell’elenco dei martiri che domani andranno all’attacco delle postazioni nemiche. Nonostante fossi un veterano.

E io andrò. Lo farò a modo mio, non andrò impavido ad abbracciare la morte in preda alla furia mistica. Striscerò in silenzio, come uno scorpione del deserto, come un veterano che deve fare il lavoro dei novellini, mentre le postazioni automatiche concentreranno il loro fuoco sui bersagli più facili. Spero di avvicinarmi abbastanza da rendere meno inutile la mia morte. 
Addio, amatissima Suheila, mio tenero fiore, dai petali morbidissimi. Volevo essere per te rugiada e domani lo diventerò. Sarò il sole che guarderai calare al tramonto e la brezza fresca che ti scompiglierà i capelli. Non provare dolore per me, perché potrò finalmente accarezzarti nei tuoi sogni. E risvegliarti con un sorriso.

Il tuo Bashir

P.s. Scrivo questa lettera nella lingua del nemico fidando che egli, comprendendo queste mie ultime parole, le faccia giungere a te in qualche modo. Metterò il foglietto nell’elmetto, dentro il fazzoletto che mi avevi regalato e lo lascerò nella terra di nessuno. 

Il caporale finì di leggere il foglio che il manipolatore del robot teneva tra i palpi tattili della pinza. 
«Sergente, il robot-sminatore ha trovato questa lettera. L’ha scritta uno di loro.»
«E allora?»
«Beh, non so, è una lettera ad una donna, forse dovremmo darla alla Mezzaluna Rossa perché gliela faccia avere.»
«Sei scemo? Quassù è tutto radioattivo. Abbiamo nuclearizzato l’altopiano. Non è rimasto niente di vivo fino a tre metri sotto terra. Se quella lettera arrivasse alla fidanzata, l’avvelenerebbe poco a poco.»
«Potremmo fotocopiarla. Era un soldato come noi. Sergente, anche lei ha una ragazza a casa. Anche lei sa cosa significa…»
«Bah. Hai il cuore troppo tenero. Dove bisogna spedirla?»
«C’è un indirizzo…»
Il sergente diede un’occhiata allo schermo che inquadrava il foglio ingiallito. 
«Allora sei proprio scemo. Non le senti le notizie sulla info-rete? Quella città non esiste più. Datti una mossa, caporale. L’Intelligenza Artificiale di battaglione mi sta dicendo che stai abbassando l’efficienza del plotone dello zero-punto-quattro per cento.»
I palpi del manipolatore si aprirono e il foglietto scomparve, portato via dal vento freddo e radioattivo dell’altopiano. Il caporale non ricordò di aver dato quel comando al robot.

Tadako Okada

In un’altra vita produttrice di manga e sceneggiatrice. Da otto anni vive in Italia in una città sul mare della quale adora la cucina tipica e la totale assenza di eventi sismici. Disegna acquarelli di gabbiani e il suo nome letto in un certo modo diventa un palindromo

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