
L’autista inchioda allo stop e lascia passare un fuoristrada completamente nero, cristalli e cerchioni inclusi, targa Qatar. I militari all’ingresso ci indicano il percorso da seguire. Questo, probabilmente, per evitarci la lunga fila dei camion carichi di ossigeno.
Il primo giorno avevo visto uscire una colonna di auto funebri, il conducente ed io ci eravamo scambiati uno sguardo, in silenzio.
Salutiamo i soldati che montano le grandi tende da campo, in pochi giorni quasi una città, a fianco della struttura nuova, che sembra un aeroporto, su quella strana pianura… così piatta.
È ora di uscire dall’auto: un sospiro, il gel, la maschera, i guanti, lo scafandro, lo zaino, l’acqua, e apro la portiera, controvento, uno sforzo immenso. Mi giro verso l’autista oltre il cristallo ermetico, che poi è mio figlio, ci vediamo tra un’ora, gli dico, come i 24 giorni precedenti.
Entro nel bunker e striscio il tesserino, disinfezione, raggiungo la zona blu.
La nuova collega giapponese mi porge un pacco di maschere nuove, queste si trovano solo al mercato nero, per ora.
Aspettando il mio turno cerco di distrarmi, mi volto a guardare il prato spazzato dal vento, oltre le grandi vetrate curve, c’è sempre vento, qui; il primo giorno mi aveva colpito la grandezza della costruzione e quelle tre volte che sembravano proteggere chi entrava.
Nella Macchina bisogna stare fermi, con la maschera, il corpo nudo contro il metallo gelido. D’altra parte, è l’unico modo per sopravvivere, se sei stato esposto.
Dopo il trattamento, il rito: un pacchetto di crackers (marca Sky), 3 lame sottili bianchissime, e dell’acqua che mi porto dietro in una borraccia di vetro, tiepida, per scaldarmi dopo l’immobilità forzata a temperatura ridotta. Una routine che conforta. Del resto a questo servono le routine.
Ora posso uscire senza scafandro. Solo guanti, maschera e disinfettante, e poi verso casa, unica auto, la nostra, a parte le file di camion in autostrada.
In città spariscono anche i camion, solo qualche volante.
Oggi l’ultimo giorno e prima di uscire, sono venuti a salutarmi, mi sono commossa, forse sono solo lacrime di liberazione.
Ora che guardo i fiori sul terrazzo, per la cronaca dipladenie, erica, e piccole rose, e con la coda dell’occhio riesco a vedere mio figlio che prepara la cena, ripenso al mondo che ho intravisto nella Macchina. Quasi come questo, ma laterale. Ho paura che anche se ci fosse una sola intersezione con questo, per quanto io cercassi di balzare di mondo in mondo, sarebbe sempre la stessa. Esattamente quella da cui vorrei allontanarmi.
E allora chiudo gli occhi, immaginando di essere distesa a letto, su un fianco, nella casa di montagna, in un mondo perfettamente parallelo – il profumo del rosmarino, dell’erba tagliata, l’abbaiare di quel cane bianco che sembrava una statua-.
La presenza della casa in montagna, ora che tutte le montagne sono state spianate, mi conforta sul fatto che lì e, incredibilmente, adesso, non possa esistere alcun punto di intersezione.
Così, anche se solo per pochi istanti, riesco ogni giorno, alla stessa ora, a beffare tutte le leggi della fisica, inclusa la quantistica, il destino e la razionalità tutta.
Ma questo è un segreto.