Il teletrasporto, si sa, è una scocciatura. Per noi pendolari ormai non c’è altra scelta: il passaggio via cavo costerà sempre meno della monorotaia. Non è tanto per lo sbalzo quantico che fa rizzare tutti i peli  e scombussola la struttura fine delle particelle, per non parlare dello stomaco che sembra di ghiaccio come se fosse stato esposto agli spazi siderali; non è tanto per questi banali inconvenienti, ai quali tutti prima o poi si abituano. Quello che più infastidisce  è il servizio approssimativo. Portali vecchi e sporchi, tastiere per il codice ormai illeggibili a causa di strati di lordume, untuose come vecchie padelle mai ben lavate. Per sapere cosa si sta digitando  bisogna imparare il braille rimasto in rilievo.

Per questo la gente finisce suo malgrado in posti improbabili, per un numeretto sbagliato. Per non parlare delle file,  lente e lunghissime, davanti al portale quantico. Certe volte viene voglia di urlare: “ Bastardi! Apritene un’altra di queste trappole!”.

Avrebbe senso per smaltire le file dell’ora di punta. Invece c’è sempre quell’unico impiegato che controlla i biglietti olografici sul dito e ti guarda come se fossi un insetto perché ha interrotto il suo giochino mangia-cervello nella SENS-O-net. Noi per  FS siamo solo carne da macello, placidi bovini, ben allineati e sottomessi.

La gente che s’incontra nella fila è sempre la stessa da anni, alcuni hanno viaggiato talmente tanto che quasi le loro molecole si smaterializzano prima ancora che digitino il codice. Anzi, ti dirò che a guardarli bene controluce sembrano un po’ inconsistenti. Magari col tempo scompariranno del tutto. L’unica occasione di divertimento è quando qualcuno scopre un pivello nella fila. 
Il novellino si distingue subito dal  suo sguardo nervoso, dalle occhiate rapide alla struttura di metallo nero del portale quantico. Sobbalza tutte le volte che il lampo – FLASHCZZAPP!- illumina la stazione, indicando una partenza.

Sappiamo al volo chi non si è mai teletrasportato. In lui ogni cosa puzza di prima volta. Vorrebbe non essere lì, ma c’è costretto per un qualche impellente motivo. Suda copioso anche a gennaio. All’ennesimo FLASHCZZAPP! esala un profondo respiro, un lamento soffocato.

È il segnale convenuto. Tutti i vecchi lupi del teletrasporto si lanciano sguardi d’intesa e piccoli segni di complicità si trasmettono per tutta la fila. Di solito quello che inizia è il geometra che lavora alla SanJong-Fiat di Shangai. Quello che ha la voce da baritono e la faccia da duro:
«Non mi abituerò mai. Essere spediti via cavo come un’e-mail. Non mi fiderò mai. L’avete sentita l’ultima.»

Così si arriva agli aneddoti. Sempre gli stessi. Quello della persona rivoltata come un guanto, con gli organi ancora pulsanti all’esterno; quello dell’uomo al quale era stato invertito il tempo biologico e diventava sempre più giovane sino a morire da neonato (se il pivello appare particolarmente ingenuo si arriva sino all’ovulo fecondato); quello del tizio che viene duplicato e viene rapito dai contrabbandieri di organi; quello che entra tutto contento e poi non se ne sa più niente perché manca per un attimo la corrente. Non sempre ci mettiamo anche la storia del tizio che attraversa il portale con una mosca ecc. ecc. (ma è meglio non strafare perché la Sens-O-net ogni tanto ritrasmette il film). L’ultimo è  sempre l’invalido di guerra che va all’habitat sottomarino di Segrate 5. Mostra la protesi del braccio amputato e racconta della volta che gli si è impigliato il maglione nel portale quando lo attraversava, invece che raccontare come aveva fatto il fesso con una granata, quando faceva il mercenario nella Seconda Guerra di Secessione Americana. Ormai non fa più nemmeno ridere.

Però il pivello ci casca sempre. Qualcuno a volte impallidisce, borbotta una scusa e lascia la fila. Chissà quante vite abbiamo cambiato, interrompendo quelle partenze impellenti.
Da tempo non partecipo più allo scherzo e mi rifugio nei miei sogni.

Immagino l’altro me stesso: lo vedo ricominciare, imparare una nuova lingua, iniziare dai lavori più umili. Sogno che alla fine ce la faccia, che s’inventi qualcosa, un nuovo sport a bassa gravità, una ricetta per un cocktail di narcotici. Sogno che abbia un’idea di quelle che sbancano. Lo vedo che diventa ricco e ammirato da tutti. Allora tutta la mia vita diventa più spiegabile come in una elegante teoria unificata.

Diventano comprensibili tutte le chiamate vuote che arrivano di notte. No, non è il videoterminale che fa i capricci. Quelle chiamate sono del mio gemello che vorrebbe dirmi che sta bene. Che sta vivendo anche per me una bella vita. 
Mia moglie è scappata due anni fa. Ha lasciato solo un messaggio che diceva: “Lo faccio per nostro figlio, per dargli un futuro migliore”. Così nel mio sogno immagino che sia  partita per raggiungere lassù l’altro me stesso.

Li immagino felici nella loro bella casa  dentro il cilindro cavo di una colonia O’ Neil.

Magari ogni tanto si sentono in colpa per me che sono rimasto quaggiù, a fare un lavoro da schiavi, comandato a bacchetta da una A.I. isterica. Magari sono seduti davanti al camino acceso, con in mano un bicchiere di buon vino rosso, parlano di me che vivo in un cubicolo di 10 metri quadri, mangiando bastoncini di soia e piadine al plancton rigenerato. Magari un giorno mi vengono a prendere. Non chiedo molto. Solo di poterli vedere un po’ da lontano, senza toccarli. Come se fossero in un film.

Ecco. Finalmente è il mio turno.
FLASHCZZAPP!

Marco Pagot

Ha studiato lingue orientali, è esperto di cucina giapponese e ikebana. Da sempre appassionato di anime, manga e fantascienza cyberpunk, pubblica racconti di fantascienza dall’età di diciassette anni. Il suo vero nome assomiglia a quello del protagonista di un film Miyazaki ma è solo una coincidenza.

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