
Eusebio Funes – “Il fulmine argentino”- era sempre stato famoso nella natia Bariloche per i suoi strabilianti riflessi. Quando nel suo cervello scattava il giusto interruttore riusciva a prendere una mosca al volo con due dita o parare qualunque pallone avesse la disavventura di capitare vicino alla porta della sua squadra.
In breve, grazie a lui, il Bariloche Junior risalì la classifica del campionato argentino. La clamorosa vendita di Eusebio a un squadra del vecchio continente non colse troppo di sorpresa i commentatori sportivi più esperti. I proprietari della squadra si arricchirono, e la squadra scomparve presto dove finiscono tutte le piccole squadre che brillano una sola stagione lasciando solo vecchie fotografie ingiallite.
Eusebio giunto in Europa era già una celebrità. Tutti sapevano che sarebbe stato una minaccia per le statistiche dei più quotati marcatori.
Subito ebbe l’occasione di mettere alla prova i suoi celebrati riflessi con potenti macchine sportive, domande insinuanti di giornalisti sportivi e stelline televisive addestrate a sfilare rapidamente patrimoni di ingenui arricchiti. Fu una di queste rapaci bellezze a tirargli l’imparabile sotto forma di una pesante fruttiera di cristallo mentre, aspettava che lei uscisse dalla sua vita dopo averle voltato le spalle.
Quando riemerse dal coma la sua vita era cambiata. Era vivo, ma i suoi tanto decantati riflessi erano ridotti a quelli di un bradipo variegato appena uscito da una anestesia totale. Nessun medico riuscì a capire cosa quel frammento di vetro avesse danneggiato nella sua testa.
Fu così che di fulmineo, da quel momento, ci fu solo il suo passaggio da titolare a illustre panchinaro.
Ex. Eusebio poteva leggere l’odioso prefisso nello sguardo di tutti i compagni, i dirigenti, i giornalisti. L’unico che sembrò non considerarlo come un reperto archeologico di difficile catalogazione fu il “massaggiatore”, il tipo elegantissimo che era in confidenza con i giocatori più importanti.
«Si tratta di una roba forte,» disse sottovoce l’uomo dal sorriso di alligatore passandogli una scatolina. «È talmente nuova che non ha ancora un nome. Ma stai sicuro che se lo usano i militari è buona.»
«I militari?» domandò preoccupato. «Si, i militari, i piloti dei caccia. Questa sostanza è un acceleratore dei neuro-trasmettitori. Quando sei su un jet a mille chilometri l’ora devi avere dei riflessi di una macchina se vuoi uscire vivo da un combattimento. Una microiniezione di queste e ti spari nel sangue una sostanza che rimane inattiva sino a che non si alza il tasso di adrenalina. Solo allora comincia il bello e ti sembra di essere un dio che vede il mondo al rallentatore. Con dei riflessi del genere riusciresti a schivare una pallottola. I palloni ti sembreranno viaggiare nella gelatina di pollo… L’antidoping non ne conosce nemmeno l’esistenza. Fidati di me.»
Gli bastò un allenamento sotto l’effetto della sostanza per convincere il mister a farlo giocare nella Superfinale di Coppa. Fu un gioco da ragazzi fermare il grande esperto di punizioni, il celebrato maestro del calcio imparabile e il suo pallone angolato dalla traiettoria imprevedibile.
Ma Eusebio scoprì qualcos’altro: nella sua mente identificò l’istante cruciale, il momento in cui la sostanza misteriosa fu attivata dall’adrenalina.
Per un attimo ebbe la sensazione di un fermo immagine.
Vide il grande campione con il pallone bloccato sulla punta del piede. La sfera era elemento centrale di un universo immobile avvolto da un silenzio irreale come quello dei nevai della Cordigliera. L’istante durò un tempo soggettivo abnorme. A Eusebio sembrarono passare minuti interi prima di sentire il tonfo lunghissimo e soffocato del calcio.
Solo allora il tempo riprese a scorrere, accelerando un poco alla volta permettendogli di impostare il suo corpo per il balzo e fermare il pallone.
Per tutta la partita le e due squadre di campionissimi si impantanarono in un gioco senza sbocco per non scoprire le difese. Nessuna azione degna di nota nei tempi regolamentari e nemmeno in quelli supplementari.
Così si arrivò ai rigori. Eusebio solo allora, davanti al cannoniere avversario, sentì l’adrenalina scorrergli nel sangue andando ad attivare la sostanza che bloccava il tempo.
Ancora una volta un diamante imprigionò l’universo e lui dovette aspettare che il fermo immagine riprendesse a scorrere per poter parare il pallone.
Non volle accorgersi che il tempo, questa volta, gli era sembrato bloccarsi più a lungo, per tornare a scorrere come una densa melassa che si trasforma lentamente in acqua corrente solo dopo un’attesa lunghissima.
Destino volle che dopo tutto il tripudio, il suo compagno calciasse dagli undici metri una palla che volò alto sulla traversa avversaria. Fu così che Eusebio dovette parare il suo secondo rigore e tutto lo stadio esultò per la sua prodezza. Nessuno si accorse dello sguardo attonito del portiere, dentro di sé convinto di aver passato almeno un’ora del proprio tempo interiore a guardare l’elegante traiettoria di una zolla d’erba staccatasi dalla scarpetta dell’avversario e ricaduta sul campo, prima di decidersi ad impostare la parata.
Qualcosa andò storto, il fischio dell’arbitro interruppe i festeggiamenti e fece ripetere il rigore a causa della posizione irregolare di un giocatore. Eusebio si sentì mancare. Aveva già notato quanto si fosse allungata a dismisura la percezione interiore dell’istante. Non conosceva il significato della parola “esponenziale”, ma sapeva che se lasciava andare l’adrenalina, la trappola del tempo bloccato l’avrebbe imprigionato per chissà quanto dentro il suo cervello. Cercò di rilassarsi, di bloccare l’ansia che sentiva crescere. Più per timore degli effetti della droga, che per paura del rigore. Come se fosse una legge ineluttabile della fisica, non appena l’avversario iniziò la rincorsa, l’universo si congelò in un cristallo immutabile.
Fiducioso, Eusebio, attese osservando i particolari infinitesimali della scena. La sua attenzione si concentrò su una goccia di sudore di Josè Ribeira, il rigorista della squadra avversaria, e cercò di misurarne il tempo di caduta. Eusebio non era mai stato bravo in matematica e i suoi calcoli furono piuttosto approssimativi. Sapeva però che l’intervallo di tempo bloccato, questa volta, si sarebbe allungato a dismisura.
Non poteva essere vero, si diceva, ma più scorreva il suo tempo personale, più capiva di essere in trappola. Per Eusebio passarono giorni (intesi come numero di ore, non come alternarsi di buio e luce) mentre la sua mente si struggeva nell’attesa snervante. Non era mai stato tanto tempo immobile con nient’altro da fare che pensare.
Affrontò tutti i suoi ricordi, le sue meschinità, i prezzi troppo alti che aveva dovuto pagare per essere davanti a uno stadio congelato e ne uscì sconfitto.
Dopo qualche tempo, posto che questa parola avesse ancora un senso, Eusebio sentì qualcosa di nuovo che gli cresceva dentro, ma che forse c’era sempre stata. Era la solitudine. Un sentimento che non aveva mai avuto il tempo di provare e che in breve si trasformò nel desiderio lacerante di qualcuno a cui raccontare la propria pena. Provò con la maschera concentrata di Josè Ribeira, tentò con la faccia scolpita nel ghiaccio dell’arbitro. Provò con tutti coloro si trovavano nel suo ristretto campo visivo. Ma non ne ebbe sollievo.
Così Eusebio impazzì. Chissà per quanto tempo la sua mente vagò ululando dentro l’angusta prigione del suo cervello ritraendosi ogni volta alla vista del prato verde, dello stadio e del pallone eternamente fermo sul dischetto degli undici metri. Forse anni interi.
Poi accadde qualcosa. La sua mente non scappò più dalla luce. Imparò ad analizzare l’immagine che vedeva non più come se fosse il prodotto della riflessione della luce, ma come se fosse il tessuto di un immenso arazzo. Capì come distinguere le trame intrecciate e riuscì a vederne il mirabile disegno.
Eusebio, se si poteva chiamare ancora così l’entità nella prigione di tempo lento, esaminò il viso di un tifoso, un giovane seduto sugli spalti a più di cento metri da lui, e vide che non c’era solo luce, ombra e colore. Intuì che le trame proseguivano dietro il disegno. Non solo radiazioni luminose, ma storie e ricordi. Erano le trame di una vita che dopo essere state intrecciate dal destino arrivavano a lui come immagine. Da quel viso, Eusebio, dedusse un’intera esistenza, fatta di delusioni, speranze, gioie e sofferenze. Vide un presente di umiliazioni e lavori massacranti. Di sacrifici per essere sempre presenti quando la squadra del cuore giocava. Ma vide, sorprendentemente, anche l’altro capo del filo, quello che andava verso un futuro di vecchiaia e solitudine, quando solo il rimbecillimento senile avrebbe tenuto lontane le disillusioni.
Fu così che Eusebio, per la prima volta nella vita, provò pena per qualcuno e si sentì a lui vicino nonostante quei cento metri di distanza.
Esaltato da questa nuova facoltà, trovò il modo di passare l’eterno istante. Studiò le storie di quel frammento di umanità racchiusa nel suo campo visivo e ne intravide la danza, il ritmo, il passo lento e inesorabile, che incurante degli individui fa andare avanti la specie verso il suo destino.
Prima che potesse dedurne alcunché, si soffermò sul riflesso nel fischietto dell’arbitro. E si vide. Congelato nella classica posizione del portiere in attesa.
Eusebio nella mente sorrise, perché guardando la propria immagine aveva trovato la porta d’uscita. Capì che, causa ed effetto, spazio e tempo erano solo serrature che l’evoluzione aveva messo nel cervello umano in attesa di essere aperte.
Prima di volare via dal bozzolo congelato, prima di avviarsi verso gli spazi siderali spinto solo dalla mente a seguire le lucenti trame dei fotoni, fece un’ultima scelta, per sentirsi ancora una volta vicino a quella specie di bipedi senzienti che affollava lo stadio per un motivo così futile come solo può essere una partita di calcio.
Difatti, secoli più tardi, quando l’involucro abbandonato senza rimpianti del suo corpo ricadde sull’erba, stringeva al petto il pallone nella più bella parata della storia del football.