La seconda parte qui


Tutti a Roma sapevano dov’era l’ambasciata aliena. Non c’era bisogno di chiederlo ai tassisti o ai passanti; bastava arrivare in un posto elevato oppure in una strada larga come Via della Giuliana e guardare in direzione di Monte Mario. Sulla collina, subito dietro l’Osservatorio Astronomico c’era  la struttura aliena che tutti i romani ormai chiamavano familiarmente il “cappello del prete”.

Da lì dominava la città senza stonare troppo dietro le cupole argentate dell’Osservatorio. L’unica differenza erano le dimensioni: la sfera levigata a specchio, tagliata da una larga piattaforma e posata su tre mastodontici piedi, era più grande di San Pietro o del Pantheon. La sua presenza sopra il colle aveva creato malumori ma, d’altro canto, i turisti arrivavano a Roma anche per vedere quell’attrazione perciò gli abitanti avevano finito per accettare di buon grado l’ennesima invasione straniera del suolo romano.

Emma Zeni, ormai a tutti gli effetti la giornalista di punta della nota testata di moda, si strinse nel suo tailleur celeste, magistralmente tagliato e squisitamente cucito da un atelier famoso per vestire solo principesse. Rabbrividì un po’ a causa della fredda aria mattutina e un po’ al pensiero dell’appuntamento di lì a poco

Quella sarebbe stata l’intervista più importante della sua carriera: non si trattava della solita attrice a fine carriera e della sua collezione di mediocri make-up o della rockstar appena uscita da un centro di riabilitazione. Questa volta avrebbe dovuto intervistare il misterioso essere che abitava nel “cappello del prete”.

Come tutti, grazie alle immagini dall’Antartide di due anni prima, conosceva perfettamente l’aspetto dell’alieno. Era un umanoide – quanto può esserlo un pupazzo di gomma color cuoio allungato  e stiracchiato fin quasi a rompersi – alto poco meno di due metri e mezzo che se ne andava in giro dentro una lucida armatura trasparente per contrastare la gravità terrestre. La maschera del suo viso, i quattro grandi occhi allungati, i lineamenti che si animavano in modo bizzarro come se fossero placche di chitina, era stata ripresa da ogni angolatura possibile e aveva fatto il giro del mondo, conquistando persino la copertina del Times. Com’era successo ai romani per il “cappello del prete”, anche Emma si era abituata a furia di vedere gli onnipresenti primi piani dell’alieno. Però ora si trattava di un incontro faccia a faccia e Emma sarebbe stata da sola con l’extraterrestre nella sua base dove solo scienziati e presidenti erano stati invitati prima d’allora.

Davanti alla piazzola pubblica di elitaxi di Villa Borghese, circondata da un cordone di carabinieri infreddoliti e guardinghi, Emma aspettava il quadricottero militare che l’avrebbe portata all’ambasciata aliena. Con sé aveva solo un pacchetto da consegnare e un foglietto di appunti che ormai conosceva a memoria. Ogni particolare era stato concordato: l’ora dell’incontro e il velivolo autorizzato al trasporto; il suo abbigliamento, dal tailleur all’acconciatura, dalle scarpe al foulard perché le foto nell’articolo avrebbero fatto il giro del mondo e gli sponsor avrebbero pagato cifre esorbitanti.

C’era stata persino una riunione di redazione per  decidere quale profumo avrebbe dovuto usare e, malgrado le pressioni di un noto inserzionista, si decise per un semplice antitraspirante perché non si sapeva come avrebbe reagito l’olfatto dell’extraterrestre a fragranze troppo intense.

Erano state settimane frenetiche. Dal momento in cui s’era saputo che l’esclusiva sarebbe stata concessa al suo giornale era partita una selezione ferocissima e senza esclusione di colpi, con accorate proteste di qualcuno, petizioni di altri, minacce di dimissioni e porte violentemente sbattute.

Emma, con sua massima sorpresa, era risultata vittoriosa: sapeva di essere una donna molto intelligente e capace, abile nelle interviste, in grado di essere pungente e d’improvvisare davanti a un interlocutore reticente, ma queste erano doti che avevano più o meno tutti nella selezionatissima redazione del suo giornale. In realtà il vero motivo della scelta era lo stesso che dall’età di dodici anni la faceva dannare quando doveva trovare un vestito della sua taglia: era l’unica che non avrebbe sfigurato nelle foto accanto a un alieno alto due metri e 32 centimetri.

Emma, infatti, era così alta che il pilota del quadricottero – appena atterrato sullo spiazzo – si domandò se sarebbe riuscito a infilare quell’elegantissima spilungona nell’angusta carlinga del velivolo color oliva.

Da sempre avvezza a un mondo progettato per persone di media statura, lei si contorse abilmente, s’infilò di schiena nello sportello, si tolse le bellissime scarpe col tacco a spillo e si allacciò la cintura giusto un attimo prima che il quadricottero si alzasse sopra i tetti dei palazzi del centro.

Tra le mani aveva l’unico bagaglio che le era stato concesso: il pacchetto con un contenitore termico per alimenti. Al suo interno c’era un apprezzabile tentativo di strudel alle mele, finalmente ben dorato e friabile dopo giorni di prove con uno chef stellato. Ancora Emma non si capacitava di quell’ennesima bizzarria dell’alieno: com’era possibile che  il dono del cibo fosse un elemento essenziale nell’etichetta della diplomazia interstellare?

Sentì un po’ di nausea forse per le brusche manovre del pilota o forse per l’iniezione che i tizi dei servizi segreti le avevano fatto qualche ora prima in albergo. Per rimanere concentrata ripassò mentalmente gli appunti che lo xenobiologo dell’ESA aveva preparato per lei:

“Il nome collettivo degli alieni è Dirdindilith. Significa “I Magrolini” ed è in realtà un soprannome nella lingua franca del loro consorzio interstellare. L’alleanza  commerciale comprende venticinque civilizzazioni sparpagliate in una sfera di seimila anni luce a metà del nostro ramo della galassia. Il consorzio esiste pacificamente da più di tremila anni. Grazie a una recente espansione della bolla d’influenza, gli alieni hanno deciso di includere il nostro sistema solare nelle rotte di scambio.
La spedizione Dirdindilith è di natura squisitamente commerciale. Per loro si tratta di un normale investimento economico.
La loro specie si è specializzata in questa attività da secoli: identificano una civiltà che non possiede ancora il volo ultra-luce e mandano in avanscoperta un emissario che raggiunge il nuovo sistema planetario. Il viaggio può durare anche decine d’anni su una grande nave quasi del tutto automatizzata. All’arrivo sul pianeta viene installata una stazione commerciale; l’emissario identifica i prodotti esportabili e propone un sistema di baratto basato sullo scambio di tecnologie che reputa accessibili ai nativi: batterie ad altissima capacità, materiali ultraresistenti ecc.
Per quello che s’è capito il nome completo dell’emissario è  Glunt-Mofarr-Koldano-Xerrat (o un suo equivalente fonetico) significa “Ambasciatore delle Arti Commerciali e delle Conversazioni Contrattuali”, ma tu ti rivolgerai a lui come Eccellenza Mofarr-Koldano o semplicemente Ambasciatore.  


Emma capì di essere già arrivata quando il quadricottero s’impennò bruscamente superando il disco d’ombra della piattaforma circolare, sovrastò l’edificio alieno, picchiò e con una rapida cabrata si librò sulla zona d’atterraggio. Nella larga piattaforma a forma di disco si accese un anello luminoso  e  il pilota vi posò il quadricottero giusto al centro. I rotori si fermarono e si aprì il portello. Lei fece per sgusciare fuori dall’abitacolo quando il pilota le sorrise e sussurrò:

«Le scarpe…»

Giusto, le scarpe… Emma sporse le lunghissime gambe fuori dalla carlinga e si infilò velocemente le Christian Louboutin di vernice nera che avrebbe dovuto restituire senza un graffio al suo ritorno.

Si esibì in un agile saltello e si ritrovò sulla sterminata piattaforma nera tassellata da mattonelle esagonali, lucide come se fossero consumate. Si raddrizzò e solo allora si rese conto delle dimensioni  della struttura. Era così vasta e perfetta da farla sembrare un fenomeno naturale: un’enorme goccia di cielo romano su un metafisico pianoro di ossidiana. Emma sentì tutta la sua baldanza svanire quando si ritrovò sola nello sterminato spiazzo popolato unicamente da esserini minuscoli come lei, indaffarati accanto ai loro velivoli giocattolo che trasportavano le merci di scambio.

“Apparentemente il Consorzio non è interessato alle  nostre risorse naturali e disdegna i metalli preziosi. Vanno bene i prodotti lavorati: tessuti, porcellane, manufatti in  vetro,  legno, pietre preziose però tagliate. Per quanto possa sembrare strano l’Ambasciatore ama provare i cibi locali, spezie, condimenti e liquori che potrebbero interessare alle specie del Consorzio. Nello specifico l’Ambasciatore sembra apprezzare i dessert al miele e offre ai suoi ospiti uno squisito  cappuccino.”

Esattamente davanti a lei il bordo inferiore della cupola si sollevò come una palpebra assonnata. Un nuovo personaggio sbucò dall’apertura  e uscì sulla piattaforma. Era alto e magrissimo, di  un colore rosso acceso, come se fosse stato immerso in una vasca di smalto Fiery Red. Era  uno dei tanti servitori robot dell’Ambasciatore.

Emma riuscì a sopprimere l’istinto di scappare via quando il robot le corse incontro. L’essere meccanico le si bloccò davanti, fece un buffo movimento da uccello con la testa e infine parlò con una sorprendente voce da adolescente umano :

«Buongiorno. Il [accordo armonioso] Mofarr-Koldano la sta aspettando. Mi segua, la prego.» Emma si ritrovò ad accelerare il passo per rimanere dietro al robot scarlatto, sperando intensamente di non inciampare e finire così con le gambe all’aria in tutti i canali di news.

Quando oltrepassarono l’ingresso Emma scoprì che la superficie interna della bolla era trasparente.  Al suo interno ospitava un vasto giardino lussureggiante. C’erano grandi alberi a forma di soffioni viola che ondeggiavano lentamente a una brezza inesistente, altri avevano il fusto che si allargava a forma di pera con un fogliame largo e lucido come quello dei banani però cosparso da bolle viola. Per non farsi sopraffare dalla vista insolita, Emma si concentrò sul pacchetto che teneva in mano e mentalmente ritornò ai suoi appunti:

 “I Dirdindilith non hanno attributi sessuali distinguibili, sappiamo che sono ovovivipari perché ce l’ha detto l’Ambasciatore, ma senza entrare troppo nei particolari. Quasi sicuramente la riproduzione avviene tramite ausili tecnologici. Si sa però che per i Dirdindilith  il dimorfismo sessuale è vagamente riprovevole. Trovano molto buffo che noi terrestri diamo così tanta importanza alla faccenda dei sessi. Peraltro l’Ambasciatore sembra affascinato dai vestiti umani, nonostante, indossi solo l’esoscheletro trasparente che permette di vedere i suoi tatuaggi cangianti. In ogni caso, apprezza i tessuti pregiati, in particolare la seta.”

Alla fine del vialetto centrale, al centro della cupola, svettava una colonna nera inclinata verso est. Da quel congegno venivano sparate le capsule con le merci. Al culmine della traiettoria balistica venivano poi recuperate da rimorchiatori orbitali automatici e immagazzinate nella gigantesca nave madre.

Addossata alla colonna c’era una complicata struttura cristallina che ne abbracciava la base come un’incrostazione. Era l’edificio dove l’alieno incontrava le delegazioni terrestri.

Davanti a un’apertura triangolare Emma riconobbe subito la figura scura e longilinea del suo ospite, così aliena e così familiare: l’Ambasciatore Glunt-Mofarr-Koldano-Xerrat.


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Salvatore Mulliri

Grafico, designer e webmaster di questo sito, il suo riferimento è Karel Thole, leggendario disegnatore delle copertine di Urania. Scrive racconti per giustificare le bizzarre illustrazioni che realizza da sempre.

3 Comments

  1. Dopo questa lunghissima premessa non fai dire nemmeno ciao all’alieno?
    Non si fa così con i lettori.

    Scrivi molto bene.

    Jabbafar

    Per il giudizio del racconto aspetto di vedere cosa fanno gli alieni

  2. Lo ammetto ho guardato in direzione Monte Mario.
    Un’alieno gourmet goloso di dolci: affascinante.
    Anch’io aspetto che sia pubblicato il seguito per recensire.

  3. È buono, davvero.

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