Chissà in quale tempo, in quale spazio era inciampato l’Esperimento Philadelphia. Me lo chiedo ancora.
Nikola e Albert, in sintonia perfetta, erano certi della riuscita del loro progetto: il particolare generatore elettrico montato sulla nave l’avrebbe resa invisibile.  Si sarebbe mossa  nello spazio-tempo, sospinta per  tutto  il suo viaggio di pochi centesimi di secondo più avanti nel tempo, così da non esistere, mai visibile, nemmeno per gli schermi radar.
Qualcosa non funzionò. Ne fui testimone unico.

La nave scomparve, sì dagli schermi, ma anche fisicamente.

La vidi riapparire dove non doveva. Stridii, urla, schianti e sconquassi  come presagi precedettero   il riemergere di un’orrenda  architettura corrotta.  Corpi mutilati, fusi con la stessa nave, marinai ancora vivi che non potevano fuggire, macchinari non più al loro posto,  alcuni irriconoscibili, metalli fusi o strappati  si innalzavano verso il cielo in sculture barocche, fendendo l’aria e i miei stessi occhi.

Dissi a tutti che della nave non c’era più traccia, tenni tutto dentro di me.

Non fu solo per questo fallimento che Tesla abbandonò la scena pubblica.

Non era mai stato interessato al successo personale quanto piuttosto  alla condivisione dei risultati raggiunti. Non si preoccupava molto dei meriti che gli venivano continuamente sfilati da colleghi come  Edison, nella “guerra delle correnti” o da Marconi, per le onde radio. O da chi finanziava i suoi progetti: rendendo  disponibile al mondo risorse a basso costo, le sue scoperte si trasformavano in beffa andando contro gli interessi economici dei finanziatori stessi.

Il suo genio era interessato solo a ciò che poteva essere d’aiuto all’umanità: con questa idea era arrivato a New York quella volta, alla corte del re Edison, con il disegno stropicciato di una macchina volante, pochi centesimi in tasca e quattro articoli in croce. E con questa idea decise di ritirarsi e condurre solitario l’ultimo esperimento nel suo laboratorio privato. La sua chiusura fermò solo la divulgazione di quella che fu la sua più grande scoperta.

Lo aiutavo io, ero solo un giovane assistente sconosciuto. 

Sarà stata forse la sua insonnia (dormiva due ore per notte) a suggerirgli in un lampo di trasferire tutte le sue conoscenze nel campo dell’elettricità al cervello umano. Avrebbe finalmente trovato una fonte di energia inesauribile da incanalare al servizio dell’uomo?

Aveva notato delle inequivocabili analogie, dei parallelismi,  dal punto di vista elettrico, tra mondo esterno e cervello umano. Stazioni di partenza e arrivo per gli impulsi; da un lato conduttori naturali, circuiti, condensatori, trasformatori,  frequenze, onde elettromagnetiche e dall’altro neuroni, dendriti, assoni, sinapsi, trasmissioni, onde cerebrali.  Questo lo aveva portato a ipotizzare che esistessero dei potenziali ancora sconosciuti in ognuno di noi, compiendo semplicemente un salto dal mondo fisico a quello psichico.

Lo vidi trasformarsi, preso dall’ entusiasmo febbrile ritrovato: andava avanti e indietro nel suo grande laboratorio: dalla zona dedicata agli esperimenti elettrici, alla lavagna fitta di formule, continuamente modificate, per poi spostarsi sulla sua scrivania a leggere volumi interi di anatomia umana.

Dopo giorni e notti passati a fare calcoli, impostare formule, verifiche e controverifiche, mi chiese, solenne,  con gli occhi  che brillavano,  se volevo partecipare in prima persona ad un esperimento. Mi spiegò tutto, i vantaggi e i rischi a cui sarei andato incontro.

Accettai senza esitare.

Nessun ronzio, nessun odore di bruciato, alambicchi, o tavolo settorio, niente elettrodi grotteschi.

Mi obbligò semplicemente a non dormire. Soffrii per un tempo che mi sembrò infinito, sempre più confuso e  senza contorni, implorandolo di lasciarmi al mio sonno. D’un tratto tutto si fece nitido, intorno a me,  una lucidità quasi irreale stava conquistando ogni angolo del mio pensiero.

Tesla aveva capito la funzione del sonno, in parte lo sapete anche voi: si impazzisce dopo tre giorni di veglia continua. Ma c’è un’altra funzione: il cervello e il resto del corpo devono invecchiare in modo il più possibile sincronico. Il sonno permette di “addormentare” i circuiti, di mantenere sotto un certo livello, con andamento discendente da un certo punto della vita in poi,  le sue funzioni.

La vita, sapete…

Quello che ancora non vi è noto  è che se si riesce ad oltrepassare la barriera dei tre giorni ecco…è fatta.

L’insonnia si trasforma in un generatore perpetuo, i neuroni si rinnovano invece di decadere, le sinapsi, moltiplicate, li connettono tra loro a velocità crescente  e… lo avete capito, vero?

Sì sono immortale, spogliato del mio corpo, ma immortale.

Posso raccontare questa storia solo oggi, perché in questi anni avete imparato che l’immortalità non è  gran cosa.

Venite qui, avvicinatevi;  sì chiudete questo interruttore a valvole, per favore, per rimuovere ogni traccia di questo esperimento.

Grazie

Vostro affezionatissimo

Vuk

Lucia Saetta

Laureata in materie oscure, segue con attenzione l’impatto delle nuove tecnologie su economia e società tifando per l’entropia come chiunque abbia letto buona fantascienza. Ha curato iniziative sperimentali di scrittura e fumetto nel web. Collabora con una rivista culturale italo-francese e vive con tre emissari di Cthulhu che si fanno passare per gatti.

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