
Non so da dove arrivassero i soldi, ma per mettere su tutta la baracca ce ne vollero tanti. Di certo la maggior parte del personale medico era di Cuba, ma questo non significa niente perché i medici cubani sono sempre stati i migliori del continente. La domanda vera era: perché finanziare in segreto quel colossale progetto di clonazione umana? A chi serviva mettere al mondo esseri umani in tutto e per tutto identici a gente morta e sepolta da tanto tempo?
Io e Pablo avevamo deciso come gli altri di non porci più domande, il vitto era buono l’alloggio anche, quelle serate autunnali passate a vedere scorrere il Rio della Plata a bere caciassa erano dolci e malinconiche. Parlavamo dei vecchi tempi e ascoltavamo qualche canzone di Gardel. In fondo era la vecchiaia che avevamo sognato quando eravamo guerrilleros. Il tempo che passa addosso dolcemente, portando via tutto tranne i ricordi migliori. Per noi che dovevamo morire giovani con un fucile in mano, una vecchiaia rubata.
Avevo sempre sospettato che io e Pablo non fossimo stati assunti per fare i giardineri. Credo che ci pagassero tutti quei soldi per i nostri ricordi, per le storie che nessuno voleva più sentire all’Avana. Le solite storie di due reduci male in arnese della fallita rivoluzione panamericana. Due illusi che erano sopravvissuti al Comandante Ernesto Che Guevara e alla sua fiammeggiante parabola. L’ultimo capitolo di La Higuera però a noi era stato risparmiato. A me da una scheggia di granata, a Pablo dalla dissenteria. Di Ernesto erano rimaste solo delle fotografie dove sembra un povero cristo deposto e una mano amputata e messa sotto formalina che i suoi assassini avevano portato come trofeo a La Paz.
Le leggende non muoiono mai, si racconta, ma se hai i soldi e la tecnologia ora è diverso. Puoi fare in modo che i giganti ritornino a calpestare questa terra. Chi prese il DNA da quella mano aveva tutto quello che gli serviva.
Il piccolo Ernesto rinacque in una fredda sera di giugno. Dopo qualche giorno la sua madre india fu cacciata via piangente con un mazzo di dollari, ma non prima di aver accettato di rinunciare per sempre al bambino. Nell’educazione del piccolo Ernesto nulla fu lasciato al caso, buoni libri, sport, c’era persino una squadra di filosofi. Nonostante le mille attenzioni il ricordo che ho dell’Ernesto di allora è quello di un bambino pensieroso e taciturno che fissava per ore il lento scorrere del fiume grigio. Iniziò a ridere solo quando gli insegnammo a pescare.
All’inizio non faceva domande, come se avesse già ottenuto solo risposte che non gli erano piaciute.
Forse era per il fatto che mai nessuno, al centro, gli aveva nascosto la sua natura di clone di un personaggio famoso. O forse per il fatto che nessuno gli aveva mai dato la possibilità di essere qualcosa di diverso. Ma un giorno la curiosità ebbe il sopravvento e il piccolo Ernesto iniziò a chiederci del Comandante e della sua vita.
Non aspettavamo altro.
Per noi fu come aprire le chiuse di una diga e così sommergemmo il povero ragazzo con i nostri ricordi che gli anni avevano reso più gloriosi e non privi di una certa esagerazione. Lui assorbì tutto come una spugna. Finché non arrivò il giorno in cui ci chiese della sua morte. Avremmo potuto ignorare quella domanda, ma la passione dei narratori ci rese deboli e vittime dell’abitudine al racconto. Mettemmo su il solito teatrino tragico e narrammo dei tradimenti, delle imboscate, dell’indifferenza della gente che dovevamo liberare, della malaria e della crudele foresta boliviana. Avevamo ripetuto tante volte l’ultimo capitolo della vita del Comandante che ci dimenticammo chi fosse davanti a noi.
Il giorno dopo Ernesto fuggì rubando uno dei motoscafi più veloci, un notebook e una fotocamera. Lasciò una lettera in cui diceva che voleva vivere una vita normale e senza eroismi.
“…vado dall’altra parte del fiume, dove sarò finalmente nessuno. Come tanti. Addio. Ernesto” scrisse.
Sappiamo che a Montevideo scambiò il motoscafo con una motocicletta e un po’ di contanti. Poi si spostò di continuo per tutto il continente, come se si aspettasse di essere inseguito. Non avvenne niente del genere. Nemmeno quando iniziò a lavorare come giornalista in Venezuela o quando si presentò come partecipante al programma televisivo Gran Hermano in Cile.
Chissà? Forse fu scelto per la sua incredibile somiglianza con il più grande mito latino-americano. O magari volevano qualcuno dotato di carisma, magari anche di seconda mano.
Io e Pablo diventammo schiavi di quel programma e passavamo le notti ammutoliti e sgomenti di fronte a quel pezzo di umanità vuota e senza ideali, cercando di cogliere qualcosa di autentico, almeno nello sguardo di Ernesto mentre si rifletteva in uno dei falsi specchi nelle pareti di quella prigione.
Poi una notte finalmente accadde qualcosa.
Il nostro Ernesto si mise di fronte ad una telecamera con la barba lunga e gli occhi di quello che non dorme da giorni e iniziò a parlare con una voce diversa:
«Non so se avrò abbastanza tempo per raccontare tutto. Ho modificato le linee e ora la regia è tagliata fuori. Le immagini vanno direttamente al satellite. Finché potrò manderò in onda quello che è veramente successo qui dentro…»
Fu così che per almeno venti minuti Ernesto mandò le riprese clandestine registrate con la telecamera rubata al centro. Si vide di tutto. Il regista che litigava con il produttore su quale marca di sigarette dovessero fumare i ragazzi nella tale scena; l’autore che spiegava ad una coppia quali frasi si dovevano sussurrare mentre fingevano di fare sesso dietro ad un divano; l’aiuto-regista che redarguiva uno dei ragazzi per non aver detto una frase contenente il nome di un alcolico al momento giusto; il falso tentativo di stupro che aveva suscitato tanto scandalo. Ogni finzione di quel programma venne messa a nudo. Alla fine la faccia di Ernesto ricomparve:
«Sento dei rumori. Stanno arrivando. ora che me ne vada…- sorrise – Non preoccupatevi per me. So già come fuggire da qui. Ora spegnete i televisori e andate a vivere la vostra vita prima che qualcuno vi metta un copione in mano…»
Io e Pablo iniziammo a saltare e urlare come matti:
«Bentornato Comandante, Bentornato! »
Facemmo tanto chiasso che il piccolo Gandhi si svegliò e si mise a piangere.